Sull’importanza della simbiosi e un nuovo organello: il nitroplasto

L’emozione è forte. Questo annuncio è da Nobel, per quanto mi riguarda.


Secondo un luogo comune, cristallizzato dal poeta Alfred Tennyson duecento anni fa con l’espressione “rossa nei denti e negli artigli”, la natura sarebbe solo un posto violento, di spietata competizione e costante sopraffazione del prossimo, in cui o si sopravvive o si perisce brutalmente.

Si tratta di un concetto sbagliato, non solo perché esistono diverse forme di competizione non necessariamente sanguinarie, ma anche e soprattutto perché non esiste necessariamente la competizione. Anzi, la collaborazione è stata un passo fondamentale nella storia dell’evoluzione, senza la quale non ci saremmo noi, non ci sarebbe nessuna delle infinite forme bellissime e meravigliose che popolano questo pianeta e che stupirono Charles Darwin – esisterebbero solo i batteri, e anche qui, solo pochissimi di essi, visto che la maggior parte entra in varie associazioni simbiotiche con altri batteri, formando biofilm o condividendo vie metaboliche.

Le simbiosi, semplificando, sono associazioni tra organismi che (con)vivono strettamente insieme. Quando entrambi gli organismi ne beneficiano, si dice che la simbiosi è mutualistica. Nel linguaggio comune la simbiosi per eccellenza è proprio quella mutualistica, ma in realtà in senso stretto sono simbiosi anche il parassitismo e il commensalismo. Anzi, per certi versi mutualismo e parassitismo sono gli estremi di uno spettro e non è difficile trovare gradazioni sfumate. Ma per ora, soffermiamoci sulle relazioni che assicuranno mutui vantaggi.

Tra batteri e organismi complessi esistono numerose forme di mutualismo. Le piante alla base della nostra alimentazione e cultura, per esempio, dipendono da batteri che vivono nel terreno e nelle radici, detti azotofissatori. Questi sono capaci di prendere l’azoto presente in atmosfera e trasformarlo in composti assimilabili dalla pianta, che può sfruttarli per produrre amminoacidi, quindi proteine. Ci sono microbiologi del suolo e ambientali che hanno dato contributi importantissimi proprio studiando la fissazione dell’azoto da parte dei batteri, che è importantissima, anche se non tanto nota quanto certe scoperte mediche. E ci sono filosofi che hanno capito come le simbiosi siano state uno dei motori dell’evoluzione. Se possiamo mangiare, insomma è grazie a umili batteri del suolo.

Anche noi abbiamo una nostra flora batterica necessaria per la nostra salute. E che dire delle spettacolari associazioni a tre fra batteri, piante e funghi?

Ma le simbiosi possono essere ancora più strette. Possono addirittura essere alla base delle nostre stesse cellule.

I mitocondri all’interno delle nostre cellule discendono da un antichissimo batterio, che miliardi di anni fa venne inglobato da un altro microrganismo (un “archeo”, per la precisione). Tale evento viene detto endosimbiosi primaria, oppure teoria endosimbiotica dell’origine degli eucarioti (semplificando, gli eucarioti sono quegli organismi il cui DNA è racchiuso nello spazio confinato di un nucleo nella cellula, e che presentano organelli specializzati con varie funzioni, come animali, piante, funghi e protozoi, ma non i batteri).

Anziché venir digerito, esso sopravvisse e si integrò nella cellula, fornendo energia in cambio di derivati degli zuccheri. Quel batterio si evolvette fino a diventare un organello cellulare, perdendo la propria individualità, ma mantenendo un DNA proprio, distinto da quello nel resto della cellula

Se noi esistiamo, è grazie all’intima integrazione di quel batterio, convivenza profonda da cui poi discesero tutte le specie eucariote, inclusi gli organismi multicellulari, tra cui noi. Esistiamo a seguito di un’alleanza ancestrale e inscindibile, tale che noi non possiamo vivere senza mitocondri, e i mitocondri non possono esistere senza di noi. C’è come Lynn Margulis, all’inizio ricevette dissenso dai non addetti ai lavori per avere avanzato queste idee, ma hanno avuto ragione.

Non solo i mitocondri: tornando alle piante, nelle loro cellule vi sono anche i cloroplasti, organelli responsabili della fotosintesi clorofilliana che produce zuccheri e ossigeno a partire dall’anidride carbonica e dall’acqua. Anch’essi discendono dall’integrazione di un primitivo batterio avvenuta miliardi di anni fa. Un batterrio capace di effettuare la fotosintesi, un organismo che un tempo veniva chiamato “alga verde-azzurra” e oggi più correttamente un cianobatterio.

La grande maggioranza dell’ossigeno prodotto sulla Terra proviene dai cianobatteri marini. Sono alla base della catena alimentare. Li troviamo non solo nelle acque, ma pure nel suolo, addirittura sui bradipi! Alcuni sono anche azotofissatori, due proprietà biochimiche in una singola cellula. Dobbiamo questo e molto altro a loro. Grazie a un cianobatterio divenuto cloroplasto, siamo immersi nel verde.

Fino a due giorni fa, gli organelli discesi da una endosimbiosi noti erano solo questi due, mitocondri e cloroplasti. Già da soli, con la teoria endosimbiontica, bastano a rivoluzionare l’idea che abbiamo della vita e della sua evoluzione.

Una collaborazione internazionale di ricercatori ha pubblicato su Science un articolo in cui descrivono un nuovo organello capace di fissare l’azoto, presente all’interno dell’alga marina Braarudosphaera bigelowii (un dinoflagellato) e per cui hanno coniato il termine nitroplasto.

Questi era già stato scoperto nel 2012 come un cianobatterio azotofissatore che viveva da endosimbionte obbligato, per cui venne proposto il nome Atelocyanobacterium thalassa. Scoperta notevole, ma considerato organismo ancora distinto.

La pubblicazione annuncia che esso all’interno di Braarudosphaera bigelowii non risulta davvero distinto, ma si comporta a tutti gli effetti come un organello cellulare, replicandosi in sincronia con la cellula madre e venendo finemente regolato nell’espressione del proprio DNA dalle proteine prodotte dalla “padrona di casa”. Proprio come un mitocondrio o un cloroplasto.

Il lavoro è dettagliato nelle avanzate tecniche usate per raccogliere i dati necessari, che risparmio ai non addetti ai lavori.

Così, Braarudosphaera bigelowii nuota nel fitoplancton, effettuando la fotosintesi, e assimilando azoto autonomamente grazie al proprio nitroplasto. Chissà, magari qualcuno un giorno escogiterà un modo per dotare le piante di questo organello, per quanto complicato. Ma non è questo che mi affascina: è la scoperta in sé che trascende e ridefinisce i nostri paradigmi sulla vita.

Ancor più significativo è che questo lavoro sia il frutto della collaborazione di scienziate e scienziati di paesi diversi, contrariamente al luogo comune secondo cui la scienza sarebbe effettuata da geni isolati nella loro cameretta, e non da tante formichine che lavorano insieme.

Sono commosso.

Riferimento:

Coale, T. H., Loconte, V., Turk-Kubo, K. A., Vanslembrouck, B., Mak, W. K. E., Cheung, S., Ekman, A., Chen, J. H., Hagino, K., Takano, Y., Nishimura, T., Adachi, M., Le Gros, M., Larabell, C., & Zehr, J. P. (2024). Nitrogen-fixing organelle in a marine alga. Science (New York, N.Y.), 384(6692), 217–222. https://doi.org/10.1126/science.adk1075

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